Now playing: Magic number - Chinese american bear
Ciao giovane padawan,
potente scorre la Forza in te?
Ti ricordi cosa facevi 5 anni fa in questo periodo? Chi eri, cosa speravi, che cosa facevi e cosa sognavi di fare? Se ti fai la stessa domanda in riferimento ad altri anni hai sicuramente delle difficoltà maggiori a ricordare, sai perché? Quando succede qualcosa di inconsueto, nel bene o nel male, questo evento ci si fissa nella memoria, con tutti gli annessi e connessi. Ed ecco che ricompare l’io che eravamo in quel frangente, quello che ha affrontato quella vicissitudine o ha goduto di quella gioia improvvisa.
Di sicuro ricordi il/la te stesso/a di quando, ad esempio, hai fatto sesso per la prima volta, o di quando ti sei sposato/a o, perché no, hai divorziato/a, di quando l’Italia ha vinto i mondiali del 2006, di quando hai conseguito la laurea, fino ad arrivare all’immancabile e drammatico ricordo che ciascuno di noi ha dell’11 settembre 2001, perlomeno di ciascuno di coloro che all’epoca erano già su questa terra ed erano in grado di intendere e di volere.
E cosa sia successo 5 anni fa, a partire dalla fine di febbraio, ce lo ricordiamo un po’ tutti, no? Se scrivo parole chiave tipo “paziente uno”, “Codogno”, “FFP2”, “DPCM”, “lockdown” “il lievito è introvabile” “inno nazionale cantato dai balconi”, cosa ti viene in mente?
Una domenica di fine febbraio del 2020, forse addirittura era il 1° marzo, ci siamo riuniti in un ristorante del Pigneto, all’aperto. Gli umori erano diversi dal solito: alcune persone erano molto preoccupate, altre avevano un approccio attendista, pochi altri, tra cui quel genio che ha scritto questa newsletter, ostentavano sicurezza e sorridevano osservando coloro che avevano paura di stringersi la mano.
Avrei capito di lì a qualche giorno che quella rozza spavalderia era fuori luogo, che faceva bene chi cercava di proteggersi, che il Covid non era “un brutto raffreddore” come speravo allora, ma il più grande flagello virale dell’umanità dai tempi dell’influenza spagnola. In queste settimane sta ricorrendo il quinto anniversario dall’inizio di quell’emergenza, di quei giorni che sembrano, in una sorta di paradosso spazio-temporale, allo stesso tempo così distanti e così vicini. Ricordo bene il caos mediatico, l’infodemia, così l’avevano ribattezzata, il lockdown, nuove figure comparire sui social con la velocità con cui sbocciano i narcisi, guarda caso proprio in quegli stessi giorni di fine inverno.
Mi sono chiesto: che impatto ha avuto quel periodo sui media e sulla comunicazione in generale? Ho cercato un po’ e sai cosa ho trovato? Quasi nulla.
Mi sono forse imbattuto nella storia di una grande rimozione collettiva? Di sicuro mi aspettavo di trovare un oceano sconfinato di analisi e articoli sull’argomento.
Invece, a distanza di 5 anni da quei concitati mesi di inizio 2020, ho trovato poche riflessioni profonde su come quella fase abbia cambiato il modo di raccontare la realtà in tv, sui social, in rete. E questo, di per sé, mi è parso già un primo dato significativo, perché di mutamenti ce ne sono stati tanti, ma sembra che, in generale, siano stati in pochi ad andare a esplorarne le cause profonde.
Il boom dell’online - Un primo, tangibile esempio del cambiamento dei social a seguito della pandemia scoppiata a febbraio-marzo 2020 è stato l’impressionante aumento dell’utilizzo dei servizi online, del consumo di digital media, della straripante presenza attiva e passiva sui social.
Ogni tipo di piattaforma streaming ha visto aumentare a dismisura i propri abbonati (per citare solo un dato, Netflix ha ottenuto 15 milioni di nuovi abbonamenti nei primi tre mesi del 2020), con un picco tra le generazioni meno digitalizzate in precedenza, ovvero baby boomer e generazione X.
È stato il periodo in cui, complice l’esigenza di mostrare in continuazione il green pass (non ce la faccio, troppi ricordi!), addirittura siamo riusciti ad avere una app istituzionale (IO), in grado di raccogliere una serie di informazioni personali, gestire scadenze e pagamenti, e, anni dopo, persino salvare una versione digitale di alcuni documenti.
La rivoluzione di TikTok e dei CC- Per quanto riguarda i social, il lockdown ha avuto un duplice effetto: da un lato ha accelerato la diffusione di Instagram e soprattutto di TikTok, anche tra i/le non-esattamente-giovanissimi/e (ehm…), dall’altro ha fabbricato una nuova generazione di content creator, anzi forse possiamo dire che ha “inventato” la figura del/della content creator. In precedenza, i creatori di contenuti come li intendiamo oggi quasi non esistevano. Sai quelle persone che realizzano video, caroselli di immagini, post su tematiche specifiche, come l’ambiente, la cucina, i media, la politica, etc? C’erano già gli/le influencer, i/le blogger e vlogger, ma di figure come queste, attive principalmente sui social, anzi, partorite dai social, ne scorgevi poche.
Dovendo stare chiuse tra quattro mura, alcune persone si sono date alla panificazione, all’home fitness e allo scrolling selvaggio, mentre altre hanno iniziato a girare video, reel e pure a registrare podcast, dato che, se gli utenti consumano contenuti compulsivamente, qualcuno dovrà pur realizzarli. Questa è una di quelle novità che non sono venute meno dopo la fine dell’emergenza, anzi, i content creator hanno contribuito a rendere TikTok il social media trend-setter, quello che stabilisce cosa è di moda e cosa non lo è.
Disintermediazione - Insomma, ci siamo trovati in una società mediale molto più ricca di contenuti prodotti da utenti qualunque, pian piano diventati dei riferimenti per un pubblico sempre più vasto.
Questo ha dato nuova linfa a un fenomeno che esiste da quando esiste internet, ovvero la disintermediazione. DI-SIN-TER-ME-DIA-ZIO-NE, lo so, è una parola difficile, ho sbagliato a digitarla più e più volte, ma il concetto che esprime è abbastanza semplice: bypassare gli intermediari grazie alla creazione di una rete di comunicazione globale e paritaria.
Per esempio, su un sito di e-commerce un consumatore può acquistare direttamente dal produttore, evitando grande e piccola distribuzione.
Lo stesso vale per i media: posso apprendere dell’ultima sparata di Trump da Instagram, grazie magari a un influencer, o addirittura a un amico, senza che sia necessario aprire un giornale, fatto di carta o di byte.
È una grande opportunità e, al tempo stesso, un enorme rischio, perché la presenza di professionisti dell’informazione è garanzia (o almeno dovrebbe esserlo) di maggiore accuratezza nella selezione delle notizie e nel commento delle stesse.
La disintermediazione, invece, ha purtroppo prodotto un’enorme circolazione di fake news e una marcata polarizzazione delle opinioni, anche grazie al nuovo modo di rapportarsi ai social media. Se tutto questo era già presente prima, il periodo del Covid e dei lockdown non ha fatto altro che aumentarne in modo esponenziale gli effetti, una tendenza che è continuata fino al tempo presente, insomma a oggi, basta espressioni desuete. UFFA, anche “desueta” è una parola desueta!
Rimozione collettiva? - E allora, date le evidenze emerse anche in questa modesta ma mordace newsletter, perché non c’è un numero adeguato di analisi e report che approfondiscano il modo in cui la pandemia ha cambiato il modo di comunicare? È una domanda molto interessante, a cui non è facile dare una risposta.
In primis perché ormai molti di questi cambiamenti sono diventati parte della quotidianità, quindi più difficili da rilevare come elementi di novità. La prima volta in cui tagli i capelli corti dopo averli avuti lunghi per anni, o rimuovi la barba dal tuo viso, ci fai caso, no? Dopo un po’, però, il caschetto, i capelli rasati, il viso glabro, diventano la norma e non ci pensi più. In qualche modo succede anche con questi fenomeni mediatici, che tendono a essere riassorbiti, e anche velocemente, in un flusso degli eventi caotico che appare sempre uguale.
E, soprattutto, c’è la voglia di non pensare più agli eventi traumatici. Anche se qualcuno dice che quello del lockdown è stato il periodo più felice della sua vita (fate una chiacchierata con uno/a bravo/a), su buona parte della popolazione mondiale i giorni dei primi mesi dell’anno del 2020 sono stati difficili da accettare, da vivere e da sopportare.
Tutti/e noi, come minimo, abbiamo sperimentato un senso di impotenza e di preoccupazione molto forti, per cui ogni cosa che ha a che fare con il ricordo di quel periodo, fosse anche la disamina dei cambiamenti nel modo in cui conosciamo la realtà che ci circonda, preferiamo evitarla.
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Ho parlato di Sanremo come fenomeno mediatico.
Mi chiamo Emanuele Salè, lavoro nella comunicazione da tanti anni (cit. Stefano Nazzi), sono un imprenditore e un imperatore romano fuori tempo massimo, in questa newsletter scrivo di comunicazione, marketing, pubblicità, ma anche di libri, dischi, serie, cinema e di tutto quello che mi colpisce. Vuoi conoscermi meglio o leggere altri consigli e recensioni? Collegati con me su Linkedin o seguimi su Instagram.
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Ad maiora
Sono veramente felice che a distanza di 5 anni qualcuno abbia finalmente parlato di questo tema! Mi chiedo lo stesso, sembra quasi che il mondo della comunicazione, dei social, del giornalismo, dei media sia già nato in questa dimensione un po' peer to peer, un po' faq news e un po' fuck news!